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È tutta italiana la nuova scoperta sulla cannabis terapeutica

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È tutta italiana la nuova scoperta sulla cannabis terapeutica

Una scoperta tutta italiana ma – sottolineiamo con un certo orgoglio – per buona parte napoletana, promette di rivoluzionare la cannabis in medicina per come l’abbiamo conosciuta finora. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, rivista facente parte del network della rivista Nature, ha identificato una nuova classe di cannabinoidi. Un risultato da interpretare come uno degli effetti indiretti della decisione delle Nazioni Unite di riclassificare la cannabis a livello internazionale, togliendola dalla tabella IV e riconoscendone finalmente le proprietà mediche, dando modo ai ricercatori di studiarla con maggiore libertà.

 

Non è la prima volta che Livio Luongo, professore associato di Farmacologia presso l’Università di Napoli Luigi Vanvitelli, e il prof. Giuseppe Cannazza, ricercatore presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, scoprono una nuova classe di cannabinoidi: c’erano riusciti già nel dicembre 2019. Nel 2020 si sono ripetuti, come ha spiegato Cannazza a ilfattoquotidiano.it: “Stiamo completando la serie omologa di cannabinoidi molto conosciuti, il THC e il CBD. L’hanno scorso era stata la volta del THCP e del CBDP, quest’anno siamo andati oltre con la scoperta del Cannabidiexolo (CBDH) e Tetraidrocannabiexolo (THCH). Si tratta di una nuova classe di cannabinoidi ed è estremamente interessante perché sono sostanze che venivano confuse con un altro composto organico (il metiletere, nda), e servirà per fare chiarezza sulla composizione chimica della cannabis, un’operazione fondamentale per la medicina di domani”.

 

Le proprietà della cannabis

 

E’ il professore napoletano Livio Luongo a chiarire come “la differenza tra la cannabis e le altre piante è che in queste ultime si trovano al massimo due o tre principi attivi utili all’uomo, mentre nella cannabis sono stati trovati tanti composti attivi farmacologicamente che possono essere utili in molte patologie diverse tra loro. Per questo motivo, spiega il professore della Vanvitelli, “in genere si parla di piante officinali, ma la canapa è una vera e propria officina di molecole utili“. Gli fa eco Cannazza: “È come fosse una piccola industria che possiamo dirigere verso patologie specifiche, a seconda della composizione. Ogni varietà ha una propria composizione chimica e ciascuna varietà potrebbe essere vantaggiosa per una determinata patologia. È una vera e propria industria farmaceutica finalizzata a varie patologie”.
La collaborazione tra i prof Cannazza e Luongo è importante perché unisce le competenze tipiche del chimico – che si concentra sulla composizione di una data varietà – a quella del farmacologo, che invece ne analizza gli effetti. I due hanno reso pubblica la loro ricerca “per dare la possibilità, come ha fatto il ‘papà’ della ricerca sulla cannabis Rapahel Mechoulam e poi insigni ricercatori come Vincenzo Di Marzo, Daniele Piomelli o Benjamin Cravatt, di aprire dei filoni per poter studiare dei nuovi composti”.

 

Il professor Luongo in particolare ha sottolineato come i composti al centro dell’ultima pubblicazione scientifica abbiano “evidenziato innanzitutto il fatto che alzando la concentrazione aumenta l’effetto analgesico, ma superando una certa soglia l’effetto svanisce. Il motivo sta nel fatto che, funzionando su tanti target e su diverse patologie, stimolandone uno abbiamo l’effetto farmacologico, ma alzando la dose andiamo a toccare altri interruttori che fanno perdere quel determinato beneficio, magari per guadagnarne un altro. Per questo vanno studiati in modo approfondito, a partire dalle patologie correlate a dolore, ma anche a quelle del tratto gastro-intestinale”

 

E’ Cannazza a ribadire la rivoluzionarietà della svolta ONU, rimarcando come “una revisione critica della cannabis era attesa da 60 anni. Aver partecipato come chimico a questo processo è una soddisfazione enorme. Ora speriamo che arrivino anche i finanziamenti per il mondo della ricerca sulla cannabis, non soltanto per capire quanto possa fare male, ma per capire bene cosa possa curare”.
Una scoperta, la loro, doppiamente importante, perché arrivata mediante fondi pubblici italiani in seguito alla vittoria di un bando. Luongo, al riguardo, chiosa con orgoglio: “I fondi dovrebbero essere pubblici, e non privati, perché i ricercatori in questo modo sono liberi. Liberi di fare ricerca di base che magari non ha un ritorno economico immediato, e poi la bellezza di fare una scoperta e di condividerla, pubblicandola immediatamente, cosa che non sarebbe stata possibile con un’azienda alle spalle. È il bello di poterla donare a tutti quanti, che è un po’ il senso stesso del fare ricerca, facendo progredire la scienza a livello globale”.

 

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